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Andrea Beccaro

L'importanza di confrontarsi oggi con le small wars

6/26/2019

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A fine maggio ho tenuto una giornata di lezione sul tema “Le Small Wars di Albione: da Callwell all’esperienza della repressione in Iraq” nel quadro del seminario di Storia militare organizzato dal prof. Marco Di Giovanni e dalla SUISS presso la Scuola di Applicazione dell’Esercito di Torino dal titolo “Le guerre dopo la Guerra. Small Wars d’oltremare nell’area mediterranea e medio orientale”. Ho avuto così l’occasione di parlare per 5 ore di guerra irregolare, small wars, Callwell e di altri autori e testi meno conosciuti come l’italiano Masi o Imperial Policing di Charles W. Gwynn.
Quello che ho cercato di mettere in luce è la natura profondamente diversa di questa tipologia di conflitti rispetto alla più tradizionale e convenzionale guerra fra stati. Il tema è quanto mai importante visto che nell’attuale contesto internazionale, le guerre non statuali rappresentano il tipo di conflitto dominante e capirne la natura profonda e gli elementi caratteristici diventa un passo fondamentale per cercare di comprendere in modo più profondo il tipo di minacce che ci circondano.
In questo contesto, benché opere sul tema non manchino, il testo più importante è indubbiamente quello di Callwell, Small Wars di cui curai l’edizione e la traduzione alcuni anni fa per la Libreria Editrice Goriziana. Il volume fu scritto a fine XIX secolo e si focalizza sulle guerre coloniali, ma rappresenta tutt’ora una lettura obbligata per chi si avvicina al tema della guerra irregolare. Già dalla definizione stessa di small wars capiamo che ci stiamo addentrando in un tema molto ampio, infatti Callwell sostiene che una small war “include tutte le campagne tranne quelle in cui entrambi i contendenti sono composti da truppe regolari” (p. 71). Di conseguenza la natura del conflitto muta così come le regole strategiche e infatti l’autore, che aveva un lunga esperienza di guerre coloniali, afferma che “ogni volta che un esercito regolare si trova coinvolto in ostilità contro truppe irregolari, o forze che nel loro armamento, organizzazione e disciplina sono in modo evidente inferiori a lui, le condizioni della campagna diventano distinte da quelle della guerra regolare moderna” (p.72).
In tali contesti bellici è impossibile avere sotto controllo tutto il teatro operativo, ne consegue che forme di contrabbando e illegalità continueranno ad avere uno spazio importante. Questo è un tema oggi centrale se pensiamo al ruolo del mercato nero nel finanziare attraverso la vendita di armi le varie fazioni in lotta che a loro volta vendono prodotti quali petrolio, manufatti archeologici, droga sul mercato globale.
Siccome in tali contesti l’aspetto culturale diventa centrale, è assolutamente necessario conoscere il proprio nemico non tanto a livello quantitativo (quante armi o uomini possiede o può schierare), quanto a livello qualitativo, ovvero la sua cultura, la sua società, il suo modo di pensare e agire. Nelle parole di Callwell “nelle small wars i costumi, le usanze e i metodi di azione sul campo di battaglia del nemico dovrebbero essere studiati in anticipo. Questo non è richiesto solo al comandante e al suo staff; tutti gli ufficiali dovrebbero conoscere la natura dell’avversario e dovrebbero capire quale sia il modo migliore per affrontarlo” (p. 82). Non solo ma questo studio va ripetuto per ogni contesto bellico e situazione conflittuale.
Un altro elemento importante dell’opera di Callwell è la sua idea di delegare ai subordinati sul campo le decisioni, poiché sono loro a conoscere la realtà locale. Questo aspetto è poi un topos di tutta la letteratura legata alle guerre irregolari e alla controinsirgenza. “Si deve lasciare una grande libertà ai subordinati, il cui giudizio dovrebbe rimanere il più possibile libero da vincoli […] In nessuna tipologia di guerra c’è un bisogno così urgente di ufficiali subordinati autosufficienti come nelle operazioni di questa natura e la mancanza di tali ufficiali potrebbe rovinare anche le migliori operazioni” (p.171).
Ciò che conta in questi conflitti è l’aspetto morale: bisogna combattere il morale del nemico prima della sua forza militare che in generale è sempre molto più limitata rispetto all’esercito regolare. “Il nemico non può essere colpito nel suo patriottismo o nel suo onore, egli può essere colpito attraverso le sue tasche” (p. 52). Tuttavia la violenza deve essere commisurata all’obiettivo che si vuole raggiungere: “l’intimidazione e non l’esasperazione del nemico è il fine che bisogna avere in mente” (p. 53).
Quest’ultima è sicuramente una riflessione che sarà fatta poi propria dai vari teorici della contro-insorgenza come Galula o Trinquier i quali vedranno nella necessità di “conquistare i cuori e le menti” della popolazione locale la chiave di volta di questa tipologia di conflitto.
Il testo di Callwell è quindi una pietra miliare nel dibattito militare e strategico sulle guerre non statuali. Pur affrontando esempi di conflitti lontani nel tempo le riflessioni contenute nel volume sono molto attuali e da un lato ci aiutano a capire meglio alcune realtà strategiche attuali e dall’altro creano un contesto storico in cui inserire tutto il dibattito legato al tema della controinsorgenza.

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Recensione per Filosofia Politica

6/23/2019

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Sul numero 2/2019 della rivista Filosofia Politica è uscita la mia recensione del testo Elisa Orrù, Maria Grazia Porcedda, Sebastian Weydner-Volkmann (a cura di), Rethinking Surveillance and Control Beyond the “Security versus Privacy” Debate. Il volume è indubbiamente figlio degli eventi di politica internazionale che hanno contraddistinto questo primo scorcio di XXI secolo. L’argomentazione del testo ruota intorno a due poli e alle loro rispettive correlazioni. Da un lato il problema del concetto di sorveglianza nelle sue relazioni con quelli di sicurezza e controllo; dall’altro lato il concetto di libertà e di privacy. Queste tematiche, benché sempre centrali nel dibattito politico, hanno assunto forme e dimensioni oggi cruciali per via di alcuni accadimenti a cui molti dei capitoli del libro sono legati. Prima di tutto l’attacco di al-Qaeda dell’11 settembre 2001 ha portato, tra le altre cose, a un inasprimento delle misure di sicurezza per i passeggeri dei voli aerei. Ciò ha indubbiamente condotto a una drastica riduzione del rischio di attentati sugli aerei (anche se non a una totale eliminazione come il caso del Metrojet russo abbattuto sul Sinai il 31 ottobre 2015 dimostra), ma non negli aeroporti che continuano a essere presi di mira da gruppi terroristici (a Bruxelles il 22 marzo 2016 e a Istanbul il 28 giugno 2016). Secondariamente il caso Snowden, da cui per ammissione dei curatori del volume è scaturita l’idea di riflettere sul tema, ha messo in luce tutte le implicazioni legate all’uso sempre più estensivo e pervasivo della tecnologia informatica nelle nostre vite, agli strumenti informatici e ai dati che quotidianamente, più o meno coscientemente, immettiamo. Tale tema è centrale nel volume e viene compiutamente affrontato.
Dal testo, molto articolato nel suo complesso, emerge una critica articolata su diversi piani del modello di scambio tra privacy e sicurezza, oltre che un’analisi puntuale di alcuni elementi come ad esempio il nesso tra potere e controllo, il concetto di libertà e come questo possa essere messo a rischio proprio attraverso le moderne tecnologie.


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Storia della guerriglia. Tattica e strategia della guerra senza fronti

6/19/2019

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Odoya è una casa editrice che si occupa in modo originale di tematiche relative alla storia militare, ripubblicando testi ormai da anni fuori commercio, l’ultimo della serie di recente pubblicazione è una perla per gli studi sui conflitti irregolari e in particolare per l’analisi del concetto di guerriglia. Si tratta del libro di Werner Hahlweg, Storia della guerriglia. Tattica e strategia della guerra senza fronti.

Io l’ho letto per la prima volta ai tempi della mia tesi che si focalizzava sul tema dell’attuale trasformazione dei conflitti e ovviamente all’epoca l’unica edizione reperibile era la vecchia Feltrinelli (dell’ormai lontano 1973, mentre l’edizione originale in tedesco è del 1968) in biblioteca che fotocopiai interamente. Più volte nelle mie ricerche sono tornato a confrontarmi con il libro di Hahlweg (1912-1989) e in generale con il suo pensiero (ricordo che fu anche il curatore della raccolta di tutti gli scritti di Clausewitz) perché oggi parlando di guerra e di sicurezza internazionale non è possibile farlo senza prendere in considerazione il tema della guerra irregolare, ovvero dei conflitti che vedono coinvolti, almeno da un lato del fronte, attori non-statuali. E per meglio comprendere questa forma di conflitto serve studiarne la storia, l’evoluzione e il pensiero strategico che la sostiene ed è qui che Storia della guerriglia mostra tutta la sua rilevanza.
Il testo impiega una prospettiva storica per chiarire la natura della guerriglia e ogni capitolo ha un suo focus in un specifico contesto storico, politico e sociale, perché, come mostra molto chiaramente Hahlweg, la guerriglia ha degli elementi tattico strategici praticamente immutati, ma al contempo il quadro politico in cui si inserisce ne cambia in modo sostanziale obiettivi, dinamiche e ampiezza. Benché questa particolare forma di conflitto sia antichissima solo con il XVIII secolo in Europa vengono scritti i primi trattati e nascono le prime riflessioni teoriche al riguardo. I passaggi successivi sono poi intrinsecamente legati all’evoluzione del pensiero politico occidentale e alle sue principali teorie moderne. Perché come sottolinea Hahlweg con la guerra di indipendenza americana (1775-1783) e la rivoluzione francese la guerriglia prende il nome di guerra di popolo diventando quindi una sorta di movimento di massa legandosi al tema nascente della nazione. È in questa concezione che con la guerriglia spagnola contro Napoleone (1808-1814) il termine entrerà nell’uso comune e acquisirà il senso di lotta dal basso contro un’invasore. Questo nodo concettuale è fondamentale per due ragioni. Primo, da quelle esperienze belliche Clausewitz, e gli altri riformatori prussiani, trarranno le loro idee per la lotta in Prussia, idee che Clausewitz riproporrà nel famoso Libro VI del suo Della Guerra in cui parla appunto di guerra di popolo. Secondo, quel momento storico verrà poi ancora identificato da Carl Schmitt come il momento di origine del moderno partigiano, l’archetipo del combattente irregolare, nel suo Teoria del partigiano.
Un ulteriore passo in avanti venne poi fatto con Marx ed Engels e soprattutto con Lenin, l’introduzione delle barricate e l’idea che l’azione del popolo nella guerriglia sia diretta dal partito. Hahlweg mette poi in luce come anche durante la guerra totale per eccellenza, ovvero la Prima guerra mondiale, il ruolo giocato dalla guerriglia sia stato tutto fuorché nullo e si sofferma a lungo ad analizzare l’azione di Lawrence d’Arabia tra il 1916 e il 1918, ma anche i franchi tiratori belgi o le azioni in Persia.
Il capitolo sulla Seconda guerra mondiale è molto interessante non tanto per le operazioni che l’autore ricorda, quanto per il fatto che collega la guerriglia alle azioni degli eserciti regolari e dunque al contesto strategico più generale. Analizza, per esempio, i motivi per cui il Blitzkrieg tedesco con la sua idea di avanzata in profondità abbia in realtà favorito la nascita di movimenti guerriglieri e di conseguenza facilitato la sconfitta tedesca (una lezione che abbiamo nuovamente imparato in occasione dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003). Si dilunga poi ad analizzare le operazioni del SOE e della Gran Bretagna che sovvenzionarono e appoggiarono in modo massiccio i vari movimenti partigiani in Europa.
Il capitolo 7 affronta, invece, l’ampio tema delle lotte di decolonizzazione del XX secolo e prende in esame i teatri più caldi e importanti dalla Cina all’Algeria alla Malesia. In tale contesto non poteva ovviamente non approfondire le idee relative alla guerriglia di Mao Tze-tung e la sua influenza su tutti i movimenti comunisti dell’epoca. Al contempo però non dimentica di ricordare altri autori tornati poi famosi una decina di anni fa quando, nel contesto della guerra in Iraq, si tornò a parlare di, e riflettere sul, concetto di controinsorgenza come per esempio il francese Roger Trinquier.
Storia della guerriglia è un’opera indispensabile per comprendere la natura profonda, e in gran parte immutabile e immutata, della guerriglia intesa come guerra irregolare, ma è un testo che non va letto per la sua ricostruzione storica che oggi può contare su fonti molto più numerose. Al contrario, il libro deve essere letto come una chiave di volta per penetrare, attraverso varie ricostruzioni storiche, personaggi, azioni, idee politiche e contesti sociali, la vera natura del fenomeno guerriglia che in tutti i contesti presenta caratteristiche uguali: unità numericamente ridotte e di conseguenza l’azione è condotta da piccole bande irregolari che operano per obiettivi tattici limitati; queste bande agiscono disperse e alla spicciolata facendo perdere di vista il quadro strategico entro cui si inseriscono; è una forma di lotta contro l’ordine costituito; il partigiano ha doti particolari, è convinto della propria causa; agisce prettamente al coperto attraverso imboscate e sabotaggi che sono gli strumenti prediletti di qualunque formazione guerrigliera; non conosce fronti o limiti territoriali.
Il testo di Hahlweg sul mercato italiano va a fare compagnia all’ottimo libro di qualche anno fa di Gastone Breccia, L’arte della guerriglia che mi riprometto di analizzare qui sul blog più avanti, perché dopo questo post sul testo di Hahlweg ho intenzione di inaugurare una serie di interventi a cadenza più o meno regolare per segnalare pubblicazioni sul tema della guerriglia e in generale della conflittualità non statuale.

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Seminario presso l'Ordine dei Giornalisti del Friuli Venezia Giulia

6/13/2019

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Ieri insieme a Giancarlo Capaldo (ex responsabile Direzione Distrettuale Antimafia di Roma ) e a Mario Vignati (tenente colonnello dei Carabinieri) ho tenuto un seminario presso l’Ordine dei Giornalisti del Friuli Venezia Giulia nella splendida Trieste dal titolo Possibili scenari di attività, insediamento e riconfigurazione statuale del Califfato. L’incontro si inserisce nel quadro di una serie di seminari organizzati dalla Fondazione ICSA di Roma per promuovere l’importante lavoro di ricerca dedicato alle connessioni tra criminalità e terrorismo a cui ho collaborato e che è stato pubblicato qualche mese fa: Terrorismo, criminalità e contrabbando. La preparazione di questo incontro mi ha permesso di analizzare più nel dettaglio lo scenario africano in cui vari gruppi jihadisti si sono radicati sin dai primi anni 2000. Il quadro che ne emerge, e che ho cercato di offrire alla platea, è molto frammentato e complesso e rispecchia la realtà di quelle regioni storicamente difficili da controllare.
I gruppi che operano nell’Africa del Nord e Sahariana sono vari con storie e legami molto diversi fra loro. Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) è la milizia storicamente più radicata che trova le proprie radici, sotto un’altra sigla, durante la guerra civile in Algeria negli anni ’90. Un gruppo fortemente legato ad al Qaeda è indubbiamente al-Shabab in Somalia che ha anche sedato al suo interno un tentativo di affiliarsi a ISIS. Ansar al Din è una milizia collegata ad al Qaeda e opera principalmente in Mali e Niger. Al-Mourabitoun nasce da una costola di AQIM sotto la guida di Mokhtar Belmokhtar e opera in una vasta area tra l’Algeria, la Libia, il Mali, il Niger. Boko Haram opera in Nigeria e ha provato a fare il salto di qualità con un giuramento di fedeltà allo Stato Islamico che però appare più di facciata che altro. Per quanto riguarda i gruppi legati a ISIS, invece, alla fine del 2016, Abu Bakr al-Baghdadi al culmine dell’espansione di ISIS annunciò che il gruppo aveva ampliato il suo raggio d’azione e spostato elementi di comando in Africa. La rivista ufficiale del gruppo, Dabiq, fece un elenco delle regioni che si potevano considerare parte del Califfato: Sudan, Ciad ed Egitto (la provincia di Alkinaana); Eritrea, Etiopia, Somalia, Kenya e Uganda (la provincia di Habasha); Libia, Tunisia, Marocco, Algeria, Nigeria, Niger e Mauritania (la provincia Maghreb). In Tunisia, Ansar al-Sharia svolse un ruolo chiave più che nel compiere attentati nel reclutare foreign fighters per ISIS da impiegare poi soprattutto in Siria. Si ritiene che circa 6500 tunisini abbiano viaggiato verso la Siria e l’Iraq, di più di qualsiasi altro paese. Bisogna anche ricordare la situazione nel Sinai dove nel dicembre 2014 Ansar Beit al-Maqdis (ABM) o Stato del Sinai, giurò fedeltà ad al-Baghdadi diventando quindi il legittimo alleato di ISIS nella regione. Dopo questa dichiarazione, ABM adottò la propaganda e le tipologie di operazioni più simili a Daesh sia contro obiettivi internazionali sia contro le forze di sicurezza egiziane contro cui sviluppò lo sforzo maggiore. Altri gruppi legati a ISIS sono poi l’Islamic State in the Great Sahara che opera tra il Mali e il Niger o l’Islamic State in Somalia, Kenya, Tanzania e Uganda (Jahba East Africa), ma queste ultime sono piccole realtà che malgrado siano operative devono ancora dimostrare di potersi ritagliare uno spazio importante.
L’instabilità che queste milizie creano però si lega profondamente all’instabilità tipica di quelle regioni africane dove i confini internazionali creati dal colonialismo non solo non rappresentato realtà statuali coese e stabili, ma intersecano inoltre vecchie rotte commerciali che rappresentano il cuore del commercio africano sin dai tempi dei vecchi imperi africani. Ciò spiega anche perché spesso è difficile tracciare una linea di demarcazione netta e precisa tra gruppi criminali e queste milizie variamente collegate al jihadismo globale. Nel teatro africano gli elementi si sovrappongono in modo evidente e la stessa milizia si trova, per esempio, non tanto a gestire il traffico di droga quando ad offrire punti di sbarco, reti di trasporto sicuro e la sicurezza a quei carichi.
Indubbiamente la fine del progetto statuale di ISIS in Medio Oriente ha trasformato gli enormi spazi africani in utili punti di coesione per foreign fighters e miliziani, l’instabilità libica a partire dal 2011 ha aumentato ulteriormente le possibilità di espansione di queste milizie e ciò è testimoniato dal fatto che la violenza nella regione ha raggiunto il picco massimo intorno al 2015 per poi attestarsi su livelli circa il doppio di quelli del 2010). Non è inoltre un caso, e questo è forse l’elemento più significativo, che la cosiddetta remote violence, ovvero quelle azioni militari condotte con strumenti che non includono gruppi armati ma IED o attentatori suicidi, è aumentata fino a rappresentare il 9% dell’intera gamma di azioni offensive, mentre solo fino al 2010 non copriva nemmeno l’1%. Per esempio, secondo i dati del database dell’Università di Chicago, uno dei più completi e affidabili archivi per quanto riguarda la tattica dell’attacco suicida, dal 1995 al 2016 si sono registrati 506 azioni suicide nel continente, ma prima del 2007 se ne contavano solo poche unità ogni anno (1 nel 1995 in Algeria, 2 nel 1998, 2 nel 2002, 5 nel 2003, 2 nel 2004, 3 nel 2005 e nel 2006), dopo l’impiego è aumentato enormemente e nel 2015 furono addirittura 176.
L’Africa resta quindi un teatro importante, anche se spesso non preso sufficientemente in considerazione, per ciò che riguarda la minaccia jihadista e un caso di studio ricco di spunti da analizzare anche in un quadro geopolitico più ampio visto che oltre alle operazioni militari francesi bisogna ricordare la presenza americana, la crescente influenza, soprattutto commerciale, cinese e le operazioni di disturbo, ma comunque di una certa rilevanza, della Russia di Putin.

Per approfondire:
Carlo De Stefano, Elettra Santori, Italo Saverio Trento, Terrorismo, criminalità e contrabbando. Gli affari dei jihadisti tra Medio Oriente, Africa ed Europa
The Struggle for Security in Africa
Sub-Saharan Africa’s Three “New” Islamic State Affiliates
Guido Steinberg and Annette Weber (Eds.) Jihadism in Africa

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