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Andrea Beccaro

Cultura e Nation Building

9/22/2019

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Con la fine della Guerra fredda gli interventi militari hanno cambiato forma e natura, certamente il rischio di una guerra su ampia scala tra grandi o medie potenze non è scomparso del tutto, ma certamente si è attenuato e ha lasciato spazio a situazioni più limitate, ma egualmente pericolose e complesse. I termini per indicare queste particolari condizioni conflittuali si sprecano da nuove guerre a LIC (Low Intensity Conflict) alla dottrina della controinsorgenza per citare quelli con un focus più marcato sugli aspetti prettamente militari, ma ce ne sono altri che descrivono situazioni parallele o successive al conflitto con una maggiore attenzione agli aspetti sociali come peace-keeping, peace-building, state-building, post-conflict operations.
Benché ci siano differenze sostanziali a livello di strategia, tattica e politica tra queste diverse definizioni, tutte condividono però un aspetto che è diventato centrale nelle guerre post-bipolari, ovvero l’impatto delle operazioni militari sui tessuti culturali di popolazioni estranee a quelle forze militari. Ciò non è una novità del XXI secolo e basterebbe guardare alla storia coloniale per rendersene conto, ma è indubbiamente oggi un tema importante e interessante seppur poco trattato dalle Relazioni internazionali e dalle scienze sociali come sostiene Paolo Quercia, docente di Studi Strategici presso l’Università di Perugia, sul numero 1/2019 di Rivista di Politica.
La dimensione culturale è centrale per ogni conflitto, ma lo diventa ancora di più quando l’intervento avviene in un contesto con culture diverse da quella della forza di intervento come è appunto il caso della controinsorgenza, ma anche del peace-building o del peace-keeping. Soprattutto per situazioni di post-conflict in cui si deve ricostruire o ristrutturare l’architettura istituzionale in un determinato Paese ciò che serve non è una legittimità legale, quanto piuttosto una che deriva dalla società locale con una base etica a essa legata.
Un’operazione di questo genere ha dunque successo solo se viene costruita “a partire, e non in contraddizione, dalle gerarchie, valori, i costumi e le strutture sociali esistenti prima dell’intervento militare”.
Il problema è che questo approccio più culturale al momento è poco presente se non a livello puramente tattico e ciò ci deve portare a riflettere lungo due diverse vie. Primo, questo aspetto è centrale nelle operazioni militari del XXI secolo e quindi merita uno spazio di riflessione e ricerca importante con poi ricadute anche pratiche e quindi la possibilità di integrazione tra componente civile e militare, ciò che in ambito NATO in parte porta avanti il CiMiC, Civil-Military Cooperation. Secondo, questo aspetto è particolarmente rilevante per il nostro Paese visto che le Forze Armate italiane sono costantemente impegnate all’estero: dall’Iraq all’Afghanistan fino ad arrivare al Libano.

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