Oggi su La Stampa si parla del mio libro su ISIS e delle mie varie attività di ricerca. Un bell'articolo figlio di una piacevole intervista/chiacchiereta.
0 Comments
Quali sono i legami tra gruppi terroristici e criminali? Quali sono gli ambiti di collaborazione tra i due? Quali sono i traffici più remunerativi? Quali sono i limiti normativi per affrontare la minaccia? Quali i possibili sviluppi, in particolare sul web, dei fenomeni criminali e terroristici? Quali, infine, gli spazi geopolitici maggiorente colpiti da tale minaccia ibrida? Queste sono alcune delle domande a cui tenta di rispondere il report su terrorismo, criminalità e contrabbando pubblicato dalla Fondazione ICSA nel quadro del progetto Fighting Terrorism on the Tobacco Road che viene presentato oggi a Roma alla Camera dei Deputati con la partecipazione di importanti figure politiche, come il vice premier Matteo Salvini, di alti rappresentanti delle Forze dell’Ordine e di accademici ed esperti di primo piano. Io ho avuto il piacere di collaborare alla stesura del report occupandomi in particolare di due tematiche centrali per meglio comprendere la tipologia di minaccia attuale.
Ho infatti scritto tutta la sezione dedicata alla definizione di terrorismo ibrido, ovvero di come oggi il fenomeno abbia assunto una dimensione e una connotazione più ampia e articolata rispetto al passato e quindi di come ci siano delle zone grigie in cui criminalità, guerra e terrorismo si confondano e si fondano. Questo aspetto porta a una maggiore complessità del fenomeno e a un maggiore rischio della minaccia che non può essere affrontata solo con i classici strumenti normativi e di sicurezza interna, ma deve essere invece inserita e contrastata in un quadro più ampio e internazionale. In questo discorso ho quindi anche sottolineato i legami, da sempre esistiti, tra criminalità, contrabbando e forme di insorgenza (in cui il moderno terrorismo andrebbe inserito) mettendo in luce alcuni casi storici di commistione dei fenomeni che hanno inoltre permesso lo sviluppo del moderno terrorismo jihadista come il teatro dei Balcani e il contesto del Nord Africa. Il mio secondo contributo al report è invece più legato agli scenari e mi sono occupato in particolare dei possibili sviluppi dello Stato Islamico che oggi viene ricordato dai media per la sua sconfitta territoriale, ma che in realtà continua a rappresentare una minaccia concreta sia in Medio Oriente sia in Africa grazie alle sue ramificazioni, ai suoi traffici illeciti, che gli permettono di continuare a raccogliere fondi, e grazie alla sua ideologia. La minaccia ora è sicuramente meno militare e territoriale, ma non per questo meno pericolosa o del tutto sconfitta. Il mio ultimo libro “ISIS. Storia segreta della milizia islamica più potente e pericolosa del mondo” pubblicato da Newton Compton è stato nominato tra i finalisti del premio letterario Cerruglio, un concorso letterario a livello nazionale di saggistica legata a temi storici e di attualità. Non so se vincerò alla premiazione dell’8 maggio, ma sicuramente questo risultato mi fa piacere e arriva a coronamento di un lavoro lungo e complesso che ha visto non solo dare alle stampe il libro, ma anche un mio impegno su più fronti per cercare di comprendere meglio il problema del terrorismo moderno e di ISIS in particolare.
Qui trovare il sito del premio con i testi arrivati in finale. Qui invece potete acquistare il libro. We can be not interested in war, warfare, and international security, yet war, warfare, and international security are, or will be, interested in us. Unfortunately, this reality of international system, is a kind of general law of Politics and Europeans need learning it as fast as possible. However, it seems that they not only have completely forgotten such contingency, but also continue to ignore it. Recently, a couple of articles have been published that shed light on the critical situation in Germany. On Politico Matthew Karnitschnig writes a long and, for me, not surprising article focused on the poor condition of the German Army, the Bundeswher. Some examples. The government decided to scrap the army’s standard-issue assault rifle, Heckler & Koch’s G36, after discovering that the gun misses its target if it’s too hot. This is not a new issue because it dates back at least to 2015. In Lithuania, “about 450 German soldiers are stationed as part of a NATO mission to deter Russian aggression, U.S. officials were dismayed to discover Bundeswehr personnel communicating on unsecure mobile phones due to a shortage of secure radio equipment.” “Fewer than 20 percent of Germany’s 68 Tiger combat helicopters and fewer than 30 percent of its 136 Eurofighter jets could fly in late 2018.”
On War on the Rocks Ulrike Franke points out that Germans neglected foreign and security policy, however they may wish that Germany should pursue an active foreign policy and a significant role in solving international problems, crises, and conflicts. Nevertheless, they states that their country should be internationally neutral, which points to a rather naïve view about foreign policy. As a consequence, they want to continue to limit any foreign policy engagement to non-military means. This is clearly impossible since while the use of force in international politics is the last resort, it is also a crucial, key, and essential capability that enables to defend its own interests, politics, and allies. It gives credibility to foreign policy. These two recent articles are focused on Germany, but the political situation is similar in the entire European continent. Italy, for example, has no foreign policy apart from saying “we love immigrants, and we need to host them all” or “we close our borders, we do not want any immigrants”. Both positions are incoherent and not linked to the international situation, both are not able to see a major security problem (uncontrolled immigration) as a security problem and a consequence of security international problems. Why? Because we lack a security culture. We need to return to think about Politics, Security, and we, as Italian and European, need to understand, again, that foreign policy is not an amusement park, but is an environment where force, coercion, interests play the biggest role. On 11th February 1979 the history of Middle East changed completely. Supporters of the Ayatollah Khomeini controlled the Iranian capital, Tehran, then the Ayatollah Khomeini declared an Islamic Republic on 1st April 1979. This revolution has been a pivotal event in the history of Iran, Middle East and to some extent to the entire international system. For Iran the revolution represented a turning point from a social, political, and economic point of view. The country was transformed from a secular monarchy with strong relations to Western countries to the first Islamic Republic. As a consequence, this showed to everyone in the Middle East that it was possible to create a State on religious ground and that spread the revolutionary ideas in the entire region. As far as the international system is concerned, Khomeini turned Iran from one of the U.S. closest regional ally to one of their greatest global enemy. It follows that United States needed to revise their entire regional strategy forcing them to a more direct engagement.
Moreover, the idea of an Islamic Revolution feared Iraqi President, Saddam Hussein, and this was one of the reasons of the Iraq-Iran war (1980-1988) that allowed Iran to develop “new” tactics that then has been crucial both to the evolution of suicide attack and to modern concept of hybrid warfare related to Hezbollah. In order to know what has happened since then in Iran, at what cost, what is left of the ideals of the revolution, and of the generation of revolutionaries, and how the Islamic Republic has interacted with a region – and a world – that has often failed to accept its full normalization ISPI has recently published a very interesting and insightful dossier edited by Annalisa Pertheghella, The Iranian Revolution Turns Forty that aims to highlight relations with USA, Europe, China, and Middle East and to elucidate on Iran society, the meaning of the Revolution, and the Iran role in the current regional system. Mark Galeotti, L’esercito russo moderno, 1992-2016, Leg, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2018
Ormai da qualche anno la Russia è tornata a essere un attore centrale della politica globale come dimostra il suo coinvolgimento in Ucraina, in Siria e in modo più soft in tutto il Medio Oriente. Uno strumento centrale di questo rinnovato attivismo politico a livello regionale è indubbiamente rappresentato dal suo strumento militare. Ne consegue che chi voglia capire meglio la politica odierna di Mosca deve per forza di cose passare anche dalla comprensione delle sue forze armate e di ciò che possono (e non posso) fare. Il testo di Mark Galeotti è un utile strumento in questa direzione. L’autore è un personaggio molto noto per chi si occupa di Russia, è Senior Non-Resident Fellow all'Institute of International Relations di Praga e negli ultimi anni ha scritto molto sulle forze armate russe, sul concetto di guerra ibrida russa e in generale sulla politica militare ed estera di Mosca. È dunque una voce molto interessante da prendere in considerazione per avere un quadro della situazione. Il testo che ha scritto è sicuramente interessante e la traduzione italiana (l’opera originale è uscita per i tipi della Osprey nel 2017) va sicuramente nella giusta direzione per colmare un vuoto di conoscenze su un tema importante, come quello relativo alla forza e agli interessi di Mosca, ma ancora poco studiato o studiato da un punto di vista troppo ideologico in Italia. Più che un’analisi dell’esercito russo è una breve storia dello stesso dalla fine della Guerra Fredda fino alle prime operazioni in Siria. Vengono così messi in luce gli enormi problemi logistici nati dal crollo dell’impero sovietico, poiché non si disponeva di sufficienti spazi per alloggiare le truppe distanziate nei Paesi ormai ex-alleati dell’Europa dell’Est e così le condizioni di vita divennero terribili. Inoltre c’erano enormi problemi di disciplina, mancanza di fondi, strutture fatiscenti e quant’altro. Infine, i conflitti politici non aiutarono di certo l’esercito in quegli anni. Il testo quindi passa in rassegna, brevemente, i vari conflitti in cui l’esercito russo è stato impiegato dal 1992 in poi. Si prende in considerazione la prima e la seconda guerra in Cecenia mettendo in luce tutti i limiti della prima ed evidenziando, invece, i cambiamenti avvenuti con Putin per la seconda. Si tocca il conflitto in Georgia del 2008 in cui i primi risultati delle riforme volute da Putin si fecero sentire, ma dove si individuarono ancora molti limiti. Proprio da questi ultimi nasce la spinta per la riforma che proprio dal 2008 ha cambiato radicalmente l’esercito russo sia nella sua struttura (si è passati da una basata sulla Divisione a una dove è la Brigata a rappresentare il mattoncino principale, anche se Galeotti mette in luce come questo mutamento non sia omogeneo e vada comunque a intaccare una tradizione di lungo corso negli apparati militari russi) sia nel suo armamento. Molto interessante il penultimo capitolo “Forze d’intervento” in cui l’autore prende in considerazione i vari reparti russi più moderni e più adatti a operazioni rapide e in linea con la forma del moderno campo di battaglia. Si parla quindi delle VDV, ovvero le unità aviotrasportate, con un excursus storico sulla loro nascita, e operazioni, durante il periodo sovietico. Infatti furono proprio queste unità a essere impiegate per sedare le rivolte in Ungheria (1956) e in Cecoslovacchia (1968). Sono forze altamente addestrate e dotate anche di armamento pesante seppur in grado di essere infiltrate con aerei o elicotteri. La fanteria di Marina che non solo ha partecipato a tutte le guerre russe ma ha anche operato al largo della Somalia in funzione anti-pirateria in modo efficace seppur poco ortodosso secondo gli standard occidentali. Infine si prendono in considerazione gli Spetnaz spesso definiti truppe speciali, ma che in realtà hanno compiti leggermente diversi rispetto a quelle dei Paesi NATO per esempio. Il testo è breve e si legge rapidamente ma, pur essendo un volume importante per approfondire la conoscenza della Russia e in particolare del suo strumento d’azione in politica estera, è fin troppo conciso. Il focus è chiaramente sul processo di riforma dell’esercito di cui vengono evidenziati i passaggi cruciali, i limiti e le ricadute, ma qualche approfondimento in più sui singoli conflitti sarebbe stato gradito. Inoltre pur citando ripetutamente la Siria nel testo manca del tutto uno studio almeno per sommi capi dell’intervento di Mosca in quella regione che rappresenta senza ombra di dubbio un test importante sia per l’esercito sia per l’armamento. La Crimea è meglio analizzata. Siccome l’autore ha anche scritto un libro sugli Spetnaz mi sarei aspettato qualcosa in più su questo corpo d’elite invece che una singola paginetta. Il testo è comunque uno strumento utile per capire meglio il processo di ammodernamento dell’esercito di Mosca, i suoi limiti e i suoi punti di forza. Mette in luce come, malgrado le difficoltà negli ultimi anni, sia stato in grado di dotarsi di moderni sistemi d’arma e di riuscire a integrarli perfettamente nelle sue operazioni sorprendendo, da questo punto di vista, anche gli osservatori NATO. Un esempio è quello dei droni che durante la guerra in Georgia del 2008 erano tutti di importazione, mentre ora Mosca produce e impiega i suoi modelli e sta testando anche il primo modello armato. Sto leggendo il testo di Giubilei, Storia del pensiero conservatore. Dalla Rivoluzione francese ai giorni nostri e nel capitolo sul conservatorismo in Francia mi sono imbattuto nel paragrafo dedicato a Gustave Le Bon (1841-1931) e al suo Psicologia delle folle. Ho così scoperto che il testo è stato ripubblicato negli ultimi anni il che mi ha fatto piacere perché mi ha riportato alla mente i tempi da studente universitario. Nell’anno accademico 2000/2001, infatti, partecipai a un seminario del prof. Tuccari su masse e totalitarismi e come mio intervento portai proprio il testo di Le Bon che però all’epoca era introvabile e quindi mi affidai a una polverosa edizione della biblioteca dell’università. Sapere che il testo è invece ora disponibile sul mercato mi ha fatto tornare la voglia di rileggerlo e di andare a cercare i vecchi appunti (trovati!) su un libro che all’epoca reputai un classico e un passaggio obbligato per capire sì il comportamento delle masse, ma soprattutto la politica del XX e anche del XXI secolo (si pensi a come sia semplice influenzare masse di utenti sui social network tanto per capirsi).
Gustave Le Bon, che pubblica il libro nel 1895, riconosce che si stia entrando in un’epoca diversa dalle precedenti in cui le masse giocheranno un ruolo cruciale e sostiene che in futuro la potenza delle folle influenzerà i destini delle nazioni (si pensi ai vari totalitarismi del XX secolo). Individua inoltre dei caratteri specifici delle folle che per loro natura sono un qualcosa di diverso dalla semplice somma degli individui che le compongono. Ovvero le folle una volte formatesi costituiscono una sorta di “individuo” a se stante con proprie caratteristiche e una propria psicologia. Un primo elemento distintivo delle folle è il sentimento di potenza: grazie al numero l’individuo acquista un sentimento di potenza che singolarmente non avrebbe e di conseguenza perde il suo senso di responsabilità che invece ha come persona. Nasce una sorta di certezza dell’impunità che spinge ad avere sentimenti sempre più violenti e scollegati dalla realtà. In questo contesto si pensi ai cosiddetti “leoni da tastiera”, ovvero quelle persone che si lasciano andare ai più terribili insulti sui social, ma che poi se ripresi singolarmente ritrattano. Un secondo elemento è il contagio mentale, ovvero all’interno della folla si sacrifica l’interesse personale per seguire i desiderata della folla. Infine, Le Bon riscontra come le folle siano fortemente suggestionabili. L’individuo all’interno della folla diventa quindi un qualcosa di diverso perché si annulla la sua personalità cosciente, mentre emerge la sua personalità incosciente; i suoi sentimenti vengono diretti in un unico senso, che è quello della folla; infine, vi è una immediata applicazione delle idee, ovvero si perde quel processo razionale di valutazione delle azioni che invece un individuo razionale compirebbe. Per Le Bon quindi le folle sono schiave degli impulsi e sono estremamente mutevoli nelle loro idee il che le rende anche molto difficili da controllare, anche perché si innesca un meccanismo all’interno della folla per cui l’ignorante ha lo stesso valore dell’intelligente (si pensi alle follie antivax o delle scie chimiche) per cui ciò che l’individuo dentro una folla vede non è il vero oggetto ma l’immagine evocata di quell’oggetto. Sono due i caratteri delle folle che ne spiegano anche la diffusione oggi e come sia facile spingere le folle verso gli estremi: la semplicità e l’esagerazione. Questi sentimenti di semplicità poi chiariscono anche il perché le folle accettino o respingano in blocco determinate idee, ne consegue che le folle siano per loro natura intolleranti e autoritarie. Siccome la folle vogliono ubbidire e devono essere guidate sono particolarmente propense a figure carismatiche ed è per questo che nella seconda parte del libro Le Bon affronta, tra le altre cose, la figura del capo, le sue caratteristiche e le varie declinazioni. Nell’ultima parte del testo poi l’autore si sofferma sulle diverse categorie di folle: criminali, di classe, elettorali ecc. Psicologia delle folle è un libro da leggere per capire meglio la società di massa di oggi e come alcuni elementi legati al “politicamente corretto”, alla diffusione di notizie (bufale) e alla forza dei social network possano influenzare le persone e il sentire comune. Le Bon non offre soluzioni, ma di certo il pensiero critico e la capacità di non farsi trascinare rappresentano due buoni strumenti per resistere almeno dal punto di vista individuale. Inoltre potrebbe essere interessante applicare questo filone di riflessione ai gruppi di miliziani legati a vario modo al jihadismo globale di oggi per capire meglio il processo di radicalizzazione e il come i singoli individui vengano coinvolti nel gruppo. I am reading different books and articles about terror campaigns, history of terrorism, and authors. What interest me is trying to understand what is terrorism and in particular whether it is a tactic or a strategy. This is not a simple research question and is not a trivial one because the answer will affect the way in which we read and understand the issue of terrorism from both an academic and a political point of view.
One interesting book on this topic is Peter R. Neumann, Michael L.R. Smith, The Strategy of Terrorism. How it works, and why it fails, Routledge, New York 2008. I have already written about it on this blog some months ago, here the post. Then I read an older book, L. Freedman, Terrorism and International Order, Routledge, London 1986, that has a very interesting chapter written by Lawrence Freedman and titled Terrorism and Strategy that highlights important features of terrorism. First of all, the author aims at considering terrorism as a problem in military strategy, but terrorism differs from other military strategies not because it exploits violence (or its threat) in pursuit of political objectives, but “in playing on the psychology of violence. It works, not through brute force, but through the fear aroused in potential victims”. On a similar point, it is interesting another old, but insightful, analysis: Thomas Perry Thornton, Terror as a Weapon of Political Agitation (in Harry Eckstein, Internal War. Problems and Approaches, The Free Press, New York 1964) in which the author stresses what he terms the “symbolic” character of terrorist acts: “Thus, in an internal war situation, terror is a symbolic act designed to influence political behaviour by extra-normal means, entailing the use or threat of violence” (73). Secondly, if terrorism is considered a strategy, then it “must be able to generate a particular response” using violence, however “actual violence is not necessary part of the strategy”. Thirdly, and most important, Freedman draws a distinction that I found crucial in order to understand terrorism, and mainly modern jihadist terrorism that I consider more a kind of insurgency than a terrorist campaign. Freedman distinguishes between strategic terrorism and tactical terrorism. The former relies on terror to achieve its goal, so it thinks that this method can be decisive in itself. The latter is more frequent throughout history and employs terrorism as one of several tools. This way to consider terrorism is the most important because it enables to link terrorism to insurgency and guerrilla warfare, and shows how the continuum of violence could evolve from low intensity violence to more open warfare. Moreover, using this dichotomy it is also possible to better understand how groups could be labeled insurgent militia in a theater of operation and terrorist group in another one. The most notorious case is the Islamic State that has been labeled terrorist group, but it was actually an insurgent movement able to conquer, even using terrorism as a tactic, vast swathes of Iraq and Syria. In summary, in order to better understand modern terrorism and terrorism as a political phenomenon it is very useful to distinguish whether the group is just a terrorist group, that is a group that uses the strategy of terrorism and consequently is not able to control territory and has to be confronted using classic counter-terrorism tools; or the group is something else and uses terrorism just as one of its tactics when and where it could achieve its goals. In this case a complex appraoch must be adopted. Sul numero di Panorama in edicola questa settimana trovate un bell'approfondimento sul sedicente Stato Islamico a firma di Maurizio Tortorella. Dopo una prima parte dedicata al Medio Oriente ci sono due pagine dedicate alla situazione africana in cui vengo chiamato in causa e cerco fare un quadro preciso sia sulla tipologia di minaccia sia sul flusso di denaro e i vari finanziamenti che passano da lì. Buona lettura!
The International Crisis Group published on 28 December 2018 an article that aims at highlighting the most dangerous conflicts in 2019. It is an interesting reading to bear in mind the instability of current international system, where the threats could arise, and which one could be the most serious.
However, interestingly enough, the Iraqi situation is not listed, even though the report refers to Iraq speaking about Syrian conflict. So you can have a clearer idea on what is going on in Iraq, mainly in Mosul, reading this brief, but very insightful, article written by Rafid Jaboori for Terrorism Monitor which points out the volatile situation in Mosul where the roots of conflict, which facilitated ISIS in 2014, are still there. |
Andrea Beccaro Blog
My blog to share news related to International Politics and Security in the Mediterranean region. Moreover, the blog is also a tool to suggest books on terrorism, warfare, strategy, military history, political thought. Archives
March 2020
Categories |